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In tema di peculato è configurabile il concorso nel reato dell´ “extraneus” a condizione che lo stesso, per appropriarsi della cosa, sfrutti la relazione di “possesso per ragioni di ufficio o di servizio” dell´agente pubblico con il bene
Angela Micheletti
Con la pronuncia in commento la Corte di cassazione ha accolto, limitatamente ad un motivo, uno dei ricorsi presentati avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna, che aveva confermato la sentenza di primo grado, con la quale tre imputati, in qualità di dipendenti di una cooperativa, appaltatrice dei lavori per conto una società a capitale pubblico, erano stati condannati per il reato di associazione per delinquere, allo scopo di commettere più delitti di peculato ex art. 314 c.p., ricettazione ex art. 648 c.p. e riciclaggio ex art. 648bis c.p., in danno della medesima società, appropriandosi di merci in transito e destinandole alla successiva immissione sul mercato clandestino.
Gli imputati hanno presentato tre distinti ricorsi, due sovrapponibili tra di loro e fondati su un unico motivo, con il quale è stata dedotta la violazione di legge relativamente alla prova della partecipazione al reato associativo, il terzo distinto dagli altri e con il quale sono stati dedotti: la violazione di legge e il vizio di motivazione, in quanto la Corte di appello non avrebbe adeguatamente valutato la questione della nullità della sentenza di primo grado per omessa motivazione in relazione alla posizione del ricorrente; la violazione di legge con riguardo al reato associativo, del quale non sussisterebbero i requisiti di struttura; la violazione di legge con riferimento alla responsabilità concorsuale per il reato di peculato, configurata sul presupposto del concorso dei dipendenti della cooperativa con due guardie giurate, incaricate di pubblico servizio, della cui partecipazione all’attività criminosa l’imputato non sarebbe, tuttavia, stato a conoscenza.
La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibili i primi due ricorsi, ritenendo che la Corte di appello avesse ricostruito i fatti, valutato le prove e spiegato con accuratezza le ragioni alla base del giudizio di responsabilità ed essendo, invece, il ricorso degli imputati risultato non conforme alla sua precipua funzione, ossia la critica argomentata al provvedimento impugnato, contenendo lo stesso soltanto affermazioni generiche e non deduzioni specifiche.
La Corte ha, invece, dichiarato fondato il terzo ricorso, ma solo limitatamente all’ultimo motivo.
Nel merito, con riguardo al primo motivo, relativo alla nullità della sentenza di primo grado, la Sesta Sezione della Corte di cassazione ha richiamato le Sezioni Unite, rappresentando come le stesse abbiano precisato che anche il caso limite di mancanza assoluta della motivazione non rientri tra quelli tassativamente previsti dall’art. 604 c.p.p., nei quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza e disporre la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, potendosi invece configurare una nullità, ai sensi dell'art. 125, terzo comma, c.p.p., alla quale il giudice di appello può porre rimedio tramite i suoi poteri di piena cognizione e valutazione del fatto.
La Sesta Sezione ha, inoltre, evidenziato come, secondo le Sezioni Unite, l’omessa motivazione non sia idonea a configurare neppure la fattispecie dell’inesistenza della sentenza, essendo quest’ultima integrata soltanto in quei casi talmente gravi da far perdere all’atto i requisiti “geneticamente” suoi propri.
Infine, la Suprema Corte ha precisato che anche il caso di divergenza tra dispositivo e motivazione non integra alcuna delle cause previste dall’art. 604 del c.p.p.
Secondo la Corte di cassazione, pertanto, la Corte di appello, avendo fatto corretta applicazione di tutti i principi sopraindicati, ha redatto una motivazione completa e puntuale circa la posizione dell’imputato, non risultando evidente il motivo per il quale avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado.
Il secondo motivo di ricorso è dichiarato inammissibile dalla Corte per tutto quanto sopraesposto.
Prima di illustrare le ragioni alla base dell’accoglimento del terzo motivo di ricorso, giova preliminarmente analizzare gli elementi costitutivi del delitto di peculato di cui all’art. 314, primo comma, c.p., che punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che si appropria del denaro o di una cosa mobile altrui, di cui ha il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio.
Il peculato è un reato proprio, potendo essere commesso solo da chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale (ex art. 357 c.p.) o di incaricato di un pubblico servizio (ex art. 358 c.p.). La condotta consiste nell’appropriazione, da ravvisarsi nel comportamento di chi fa propria una cosa altrui, mutandone il possesso, ponendo in essere atti non compatibili con il titolo per cui si possiede e agendo nei confronti della stessa quale proprietario, determinando così un’interversio possessionis. L’oggetto materiale della condotta è il denaro altrui, da intendere quale carta moneta e moneta metallica avente corso legale, o la cosa mobile altrui, da intendere quale entità materiale suscettibile di essere trasportata da un luogo a un altro, dotata di valore economico o quantomeno economicamente valutabile, nel cui novero rientra anche l’energia (ex art. 624 cpv. c.p.). Il concetto di altruità implica la non sussistenza del diritto di proprietà o di altro diritto reale o di obbligazione in capo al reo, che gli attribuisca una disponibilità della cosa che lo legittimi a porre in essere l’atto appropriativo. Della res oggetto della condotta, l’autore deve, però, avere il possesso per ragioni di ufficio o di servizio o comunque la disponibilità, ossia l’agente deve avere la disponibilità materiale o giuridica della cosa, intesa quale potere autonomo funzionalmente destinato all’esercizio dell’ufficio o servizio, con l’obbligo di restituzione o di rispetto della destinazione. Il dolo nel peculato è generico, il momento della consumazione è quello in cui si verifica l’appropriazione ed è ammissibile il tentativo.
La Corte di cassazione ha rappresentato che la Corte di appello aveva escluso la sussistenza della qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio in capo ai tre imputati, dipendenti della cooperativa, in quanto preposti a compiti meramente esecutivi e materiali, ritenendola, invece, sussistente in capo alle due guardie giurate, chiamate a rispondere a titolo di concorso nel delitto di peculato ai sensi dell’art. 110 c.p. e per le quali si era proceduto separatamente. In particolare, alle due guardie giurate, che operavano all’interno dello stesso polo logistico, era stata contestata l’omissione dei dovuti controlli e dunque, il concorso morale nella condotta appropriativa materialmente commessa dagli altri, posto che l’art. 138 T.U.L.P.S. fa discendere la qualifica di incaricato di un pubblico servizio delle guardie giurate proprio dall’esercizio delle funzioni di vigilanza e di custodia dei beni mobili e immobili ai quali le stesse sono destinate.
Giova a questo punto precisare che l’art. 110 c.p. stabilisce che qualora più persone (almeno due) concorrano nel medesimo reato, ciascuna di loro soggiace alla pena per questo stabilita, individuando, dunque, un modello unitario di disciplina, basato sul criterio dell’efficienza causale, prevedendo che concorra a pari titolo chiunque apporti un qualsiasi contributo, purché rilevante dal punto di vista causale. Relativamente al contributo apportato, si distingue tra concorso materiale, sussistente quando il correo interviene personalmente nella serie di atti che costituiscono l’elemento materiale del reato, e concorso morale, sussistente quando il correo apporta un impulso psicologico alla realizzazione di un reato materialmente commesso da altri. Con riguardo al concorso morale, si differenzia solitamente la figura del determinatore, che è colui che fa sorgere in altri il proposito criminoso prima inesistente, da quella l’istigatore, che è colui che rafforza in altri il proposito criminoso già esistente. È, invece, da escludere il concorso morale nel caso di connivenza o adesione psichica, così come pure, per consolidata dottrina, ma con il contrario avviso della giurisprudenza, nel caso di mera presenza sul luogo del delitto, anche qualora quest’ultima abbia rafforzato il proposito delittuoso dell’agente.
Rientra pacificamente nella disciplina di cui all’art. 110 c.p. anche il caso in cui un soggetto privo della qualifica personale (c.d. extraneus) concorra nella commissione di un reato proprio, realizzabile soltanto da un soggetto qualificato (c.d. intraneus), essendo, tuttavia, necessario, affinché l’extraneus risponda del reato proprio, che lo stesso sia a conoscenza della qualifica dell’intraneus. Nel caso in cui la qualifica posseduta non sia determinante ai fini dell’esistenza del reato, ma solo della qualificazione giuridica di un fatto già costituente reato, l’art. 117 c.p. sembra estendere l’incriminazione per il reato proprio a prescindere dalla circostanza che l’extraneus sia a conoscenza di concorrere in un reato proprio, derogando ai principi generali in materia di concorso e configurando una responsabilità di tipo oggettivo, contrastante con il principio costituzionale di colpevolezza. È, tuttavia, possibile reinterpretare costituzionalmente tale disposizione, ritenendola applicabile solo nel caso in cui la qualifica, seppur ignorata, fosse quantomeno ragionevolmente conoscibile.
Nell’ambito dell’art. 117 c.p., nel caso del delitto di peculato, secondo un orientamento minoritario, l’unico legittimato a eseguire l’azione criminosa sarebbe l’intraneus, non configurandosi altrimenti il mutamento del titolo di reato, mentre, secondo l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggioritario, il ruolo del soggetto qualificato nell’esecuzione del fatto è indifferente ai fini della configurabilità del concorso nel reato proprio, potendo quest’ultimo sussistere anche nel caso in cui la condotta appropriativa sia posta in essere dall’extraneus e l’intranesus fornisca, invece, un contributo atipico.
A tal proposito, la Corte di cassazione, ritenendo incompleto il ragionamento probatorio della Corte di appello, evidenzia, che “Al delitto di peculato possono certamente concorrere con l’agente pubblico, ai sensi dell'art. 110 cod. pen., anche soggetti non qualificati e non è necessario che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio sia l’esecutore materiale della condotta appropriativa, ben potendo questa essere compiuta da un extraneus. Ciò che, tuttavia, è indispensabile è che il correo privo di qualifica soggettiva, per appropriarsi della cosa, sfrutti la relazione "di possesso per ragioni di ufficio o di servizio" del pubblico agente con la res. Se non vi è lo sfruttamento strumentale di detta relazione propria del pubblico agente non si configura il peculato, ma, al più, altri reati quali il furto o l’appropriazione indebita.”
La Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha, dunque, annullato la sentenza impugnata limitatamente al capo concernente il reato di peculato nei confronti di tutti e tre gli imputati, stante la natura oggettiva della causa di annullamento, rinviando per un nuovo giudizio sul punto ad un’altra Sezione della Corte di appello.
Nota di Maria Eugenia Rocchi
Con Sentenza n. 35366 del 20 Settembre 2024 la Corte di Cassazione ha ribadito importanti principi giuridici sulla natura dell’attività svolta da un impiegato di Poste italiane SPA e sulla qualificazione giuridica delle mansioni lavorative di quest’ultimo in relazione al reato di peculato e al reato di appropriazione indebita.
Nel caso in esame, l'impiegato di Poste italiane SPA veniva condannato dalla Corte d’Appello di Palermo per il reato di cui all’art. 314 c.p., in particolare per le somme riscosse dai portalettere a titolo di corrispettivo dei pacchi in contrassegno, falsificando altresì il registro delle consegne e appropriandosi di una somma pari a € 3.500,00.
Quest’ultimo, di conseguenza, proponeva ricorso per Cassazione deducendo il vizio di violazione di legge relativamente alla mancata riqualificazione del titolo di reato in appropriazione indebita.
I motivi sottesi alla richiesta riguardavano tanto la natura privatistica dell’attività svolta, che parte ricorrente affermava essere analoga a quella effettuata dagli operatori di istituti bancari nella riscossione delle somme di denaro, quanto la natura meramente esecutiva delle mansioni del ricorrente, tale da escludere, in ogni caso, l’attribuzione della qualifica giuridica di “incaricato di pubblico servizio”.
Il primo dei punti sollevati da parte ricorrente era quello di stabilire se l’attività da questo svolta, ossia quella relativa alla gestione dei pacchi in contrassegno, potesse essere assimilata all’attività privatistica di natura bancaria.
Sul punto la Corte si esprimeva in senso negativo sottolineando come, sebbene sia stata promossa la trasformazione di Poste Italiane in una società per azioni, tale modifica non abbia inciso sulla qualifica dei suoi dipendenti. Si è infatti ribadita la natura pubblicistica dell’ente in questione in quanto inclusa - fino al 30/04/2026 - nel servizio postale universale, così come descritto dalla direttiva 97/67/UE smi. In particolare, l'art. 1, comma 1 del D.lgs n. 261/1999, attuativo della direttiva sopra riportata e caposaldo della disciplina generale del servizio postale, prevede espressamente che la fornitura dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali nonché la realizzazione e l'esercizio della rete postale pubblica costituiscono attività di preminente interesse generale.
In particolare, sono da ritenersi indici della natura pubblica dell’attività: 1) l’interesse pubblico per il servizio postale universale, in modo da garantire a tutti i cittadini, indipendentemente da reddito o da residenza geografica, la possibilità di fruire dei servizi postali; 2) la presenza di una disciplina diversa da quella privatistica; 3) il finanziamento pubblico del servizio universale. La Cassazione ha ritenuto, altresì, che anche dopo l’emanazione della legge n. 124/2017, la quale ha disposto l’abrogazione del regime di esclusiva in favore di Poste Italiane per taluni servizi - per esempio, la notifica di atti giudiziari - persistono alcune caratteristiche che consentono di ritenere che tale attività, anche se eseguita in regime di concorrenza, è caratterizzata da una preminente connotazione pubblicistica che non ne consente l’assimilazione, come prospettata dal ricorrente, all’attività di tipo bancario-finanziario.
Relativamente al secondo punto, ossia la questione che concerne la natura delle mansioni del ricorrente, la Suprema Corte ha ritenuto che l’attività del dipendente non possa rientrare nella classificazione di attività meramente esecutiva o di ordine in quanto, analizzando gli elementi descrittivi delle mansioni svolte dal ricorrente - che, dopo aver ottenuto il denaro, alterava i dati delle operazioni di consegna dei pacchi - gli stessi sono idonei a ritenere che sia superata la soglia delle mere mansioni di ordine e porta ad inquadrare l’attività svolta nell’ambito della qualifica pubblicistica. Il Collegio precisava altresì, che l’art. 18 del già citato D.lgs. n. 261 del 1999 già considera le persone addette ai servizi postali, da chiunque gestiti, in qualità di incaricate di pubblico servizio secondo quanto stabilito ai sensi dell’art. 358 c.p.; diversamente, sono da ritenersi a tutti gli effetti pubblici ufficiali i soggetti addetti ai servizi relativi alla notifica a mezzo posta ed infine da escludere la qualifica pubblicistica per alcune mansioni quali lo smistamento della corrispondenza.
La Suprema Corte, ha ritenuto che nell’attività del ricorrente erano presenti margini di “autonomia decisionale e discrezionalità operativa”. Nella sentenza viene sottolineata la complessità dell’attività di riscossione dei pagamenti in contrassegno i quali, dopo la consegna del pacco e la riscossione dell’importo, richiede ulteriori operazioni quali la registrazione informatica dell'operazione, che include dettagli sulla consegna e sugli importi riscossi; importi che vengono successivamente presi in carico dall’ente Poste Italiane per conto del cliente al fine di destinarlo ai mittenti.
La condotta appropriativa illecita si configurava nella prima fase sopra riportata, ossia quando otteneva le somme riscosse. Solo successivamente si configurava la condotta di falsificazione, che la Corte non riteneva rilevante per la qualificazione giuridica del fatto quanto piuttosto un mezzo per occultare l’atto di interversio possessionis costituendo un post factum, non punibile compiuto per conseguire un risultato ulteriore.
La Corte ha infine specificato, come già noto in giurisprudenza di legittimità, la distinzione che sussiste tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, che va individuata all’ art. 61 n. 9 c.p. con riferimento alla modalità di appropriazione del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo il delitto di peculato quando il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio e, ravvisandosi la seconda ipotesi quando il soggetto, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente facendo ricorso ad artifizi e raggiri per appropriarsi del bene.
Per i motivi sopra esposti la Corte ha ritenuto che nel caso di specie si integrasse la condotta descritta nel delitto di peculato.
Sezione: Sezione Semplice
(Cass. Pen. Sez. VI, 01 ottobre 2024, n. 36566)
Stralcio a cura di Lorenzo Litterio